Lavoro: la reperibilità, e la relativa indennità, non sono diritti del lavoratore

La Cassazione interviene a sancire che i turni di reperibilità possono essere decisi e organizzati dall’imprenditore e non devono necessariamente comprendere tutti i lavoratori.

La Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro non è obbligato ad inserire nei turni di reperibilità qualsiasi lavoratore della sua impresa. Nella sentenza del 31 agosto 2017 la Cassazione ha annullato così la sentenza della Corte d’Appello di Lecce, che aveva riconosciuto ad un dipendente di E.R.G. S.p.A. il diritto all’inserimento nei turni di reperibilità, condannando il datore di lavoro a versare un lauto risarcimento del danno per le mancate indennità percepite.

L’azienda ha così fatto ricorso in Cassazione, contestando l’interpretazione errata dei contratti di lavoro e dell’art. 2013 del codice civile: da questi infatti non può essere ricavato il diritto automatico del dipendente ad essere incluso nelle liste per il servizio di reperibilità. Tali liste sono infatti stilate e organizzate a discrezione dell’azienda stessa, in base alle proprie esigenze di gestione.

Nel caso specifico, il lavoratore che aveva richiesto l’intervento della magistratura era stato escluso dal servizio di reperibilità a causa di problemi di salute conseguenti ad un incidente stradale. Per questo motivo l’azienda aveva disposto che il dipendente fosse esentato dal prestare tale servizio.

La Corte di Cassazione si pronuncia così in materia di diritto del lavoro, sacendo che il servizio di reperibilità, così com’è configurato dal contratto collettivo nazionale di lavoro, non costituisce una vera e propria mansione lavorativa. Pertanto non si può considerare l’esclusione dalle liste di reperibilità, e la conseguente privazione dell’indennità relativa, al pari di una dequalificazione professionale. Di conseguenza è stata revocata la sentenza della Corte d’Appello che costringeva l’azienda al risarcimento del danno per le mancate indennità percepite dal lavoratore.

Per il diritto del lavoro, l’istituto della reperibilità è una prestazione, di carattere strumentale e accessorio, che consiste nell’obbligo del lavoratore di rendersi prontamente rintracciabile e di raggiungere il proprio luogo di lavoro al di fuori dell’orario di ufficio. La chiamata del datore di lavoro dev’essere motivata da ragioni di conclamata urgenza, ed è prevista solo nei settori di attività per i quali è necessario assicurare la continuità dei servizi.

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Qui uno tralcio della sentenza n. 206408 del 30/08/2017

“[…] Considerato […] Che il servizio di reperibilità, così come configurato dal c.c.n.l. non costituisce di per sé una mansione in senso tecnico-giuridico, ma integra un obbligo accessorio e intermedio per il lavoratore preposto a un determinato servizio e alle connesse specifiche mansioni (nella specie assicurare il capillare pronto intervento per soddisfare le esigenze dell’utenza);

Che l’istituto di cui si controverte è disciplinato dall’autonomia collettiva, la quale normalmente prevede per la reperibilità – dato il sacrificio che essa comporta – una particolare indennità di misura inferiore a quella spettante per l’eventuale effettiva e piena prestazione che possa eventualmente conseguire al rispetto dell’obbligo di reperibilità, a sua volta retribuita con il trattamento per lavoro straordinario;

Che il servizio di reperibilità è organizzato in turni periodici secondo un piano prestabilito adottato dal datore, per le esigenze funzionali dell’organizzazione aziendale del lavoro e, il fatto che l’art. 25, co. 2, lett b) del c.c.n.l. disponga che “…nel servizio di reperibilità si avvicendi il maggior numero di lavoratori…” non implica, come invece è stato prospettato dalla Corte territoriale, che in capo al singolo lavoratore sussista un diritto a essere incluso automaticamente nei turni di reperibilità;

Che erroneamente la Corte d’Appello ha fatto discendere da tale sua erronea interpretazione che la turnazione – qualora costituisca elemento costante dell’espletamento del servizio – debba essere considerata la regola, e la dispensa dalla reperibilità l’eccezione, quasi che la mancata corresponsione della relativa indennità conseguente alla dispensa dai turni possa determinare, per il lavoratore escluso, un danno simile a quello da dequalificazione professionale in senso tecnico-giuridico, non potendo assimilarsi la reperibilità a nessuna forma specifica di lavoro, neanche “in attesa”, ma configurandosi invero quale obbligo accessorio alla prestazione principale ed intermedio rispetto al suo adempimento, esigibile soltanto nel caso in cui si presenti quella specifica esigenza che la turnazione è chiamata a soddisfare (nella specie quella di pronto intervento sul territorio per le esigenze dell’utenza);
[…]Che, pertanto, essendo il ricorso fondato, la sentenza deve essere cassata.”