Licenziata dopo la maternità: respinto ricorso del datore di lavoro.
La Corte di Cassazione ha confermato il verdetto della Corte di Appello di Torino su una causa di licenziamento discriminatorio. Una dipendente era stata trasferita dal suo luogo di lavoro, a seguito di un periodo di maternità di un anno e mezzo; la Corte d’Appello trovava giustificazione nel rifiuto della lavoratrice a spostarsi ad una distanza di 150 km rispetto alla precedente sede di lavoro. L’azienda ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione, sottolineando come il trasferimento della dipendente non fosse stato deciso per scoraggiare o intimidire la dipendente, bensì su decisione già concordata con la donna. Inoltre, il fatto che cambiasse il ruolo ricoperto dalla donna – da cassiera a commessa – non metteva in difficoltà la dipendente, in quanto secondo l’azienda le due mansioni appartengono alla stessa categoria lavorativa.
La Cassazione ha respinto il ricorso, in quanto l’azienda non ha provato l’insussistenza della discriminazione nei confronti della lavoratrice, concentrando la sua difesa su giustificazioni infondate e generiche. Nella sentenza, la Cassazione ha condannato il datore di lavoro al risarcimento delle spese giudiziarie e dei compensi professionali, per un totale di circa 4000 euro.
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[..] “Il ricorso deve essere respinto. Al riguardo deve preliminarmente ribadirsi il consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale, ai fini dell’osservanza del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4, i motivi di ricorso per cassazione devono presentare i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione impugnata (cfr., fra le molte, Cass. 4 aprile 2003 n. 5333). […]”.
Sentenza 26 luglio 2016/15435