Danno biologico al dipendente perché l’azienda gli cambia l’orario costringendolo a lunghe pause
Il dipendente costretto a lunghe pause durante il lavoro, a causa di un cambio dell’orario da parte dell’azienda, ha diritto al risarcimento per danno biologico da demansionamento, oltre al risarcimento del danno patrimoniale.
La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di appello di Cagliari del 28 novembre 2012 che condannava un’azienda al risarcimento del proprio dipendente per danno da demansionamento, danno biologico e patrimoniale.
Secondo la ricostruzione dei fatti; il dipendente si era trovato, a causa del cambio di orario impostogli dall’azienda, a dover fare sei ore di pausa. Durante queste ore di pausa non era per lui possibile tornare a casa poiché la sua abitazione era troppo distante dal luogo di lavoro. Questa condotta dell’azienda è stata ritenuta illegittima dalla Corte; era infatti compito del datore di lavoro fornire una valida ragione per questo cambio di orario che, oltretutto, risultava un demansionamento del dipendente con conseguente vessazione e discriminazione nei suoi confronti.
L’azienda è stata quindi condannata a risarcire il proprio dipendente, oltre che per danno patrimoniale, anche per danno biologico, che nel diritto italiano consiste nella lesione permanente o momentanea dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità fisica della persona. Obbligato anche il risarcimento per danno da demansionamento, avendo assegnato al lavoratore compiti e mansioni inferiori rispetto a quello che gli spettavano in base al suo inquadramento come manutentore.
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Di seguito un estratto della sentenza n. 17365/18 della Corte di Cassazione:
“[…] è denunziata insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione all’orario di lavoro, sostenendosi che la Corte di Sassari, senza ragionevole motivazione, abbia ritenuto che la condotta datoriale di modifica dell’orario lavorativo, pur se astrattamente legittima, era trasmodata in arbitrio finalizzato a vessare e discriminare il lavoratore.
Si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione a dedotta inversione dell’onere della prova, per essere stato ritenuto che incombesse all’imprenditore fornire una ragione della sua scelta di modificare l’orario lavorativo per sottrarsi all’onere risarcitorio, con ciò richiedendosi una prova, di segno negativo, dell’insussistenza di una condotta illegittima a carico del datore.
Sul danno e sulla sua quantificazione, si è fatto riferimento in sentenza anche alla patologia sofferta dal dipendente in periodo prossimo al mutamento delle condizioni lavorative ed al contenuto del C.t.u. Che ne aveva accertato la riconducibilità causale e, in termini più generali, con riferimento ai criteri giuridici applicabili in relazione alla valutazione da compiersi in tema di demansionamento è sufficiente il richiamo ai principi affermati da ultimo, da Cass. 10.01.2018 n. 330, secondo cui, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto. […]”